L’incanto nascosto di Scampia: il racconto di Davide Cerullo

Ci sono luoghi che meritano di essere raccontati per le vite che ospitano e le storie che sembrano nascondersi agli occhi di tutti. Ci sono luoghi che appaiono distanti, tumefatti, incancreniti e, per questo, stigmatizzati e dimenticati. Ci sono luoghi dove la politica si è fermata, come Cristo a Eboli, dove la cultura fatica ad essere attraente, dove un libro muore sotto la pioggia senza che qualcuno l’abbia mai letto. Uno di questi luoghi è Scampia, un territorio che un tempo è stato dominato dalla droga e dalla violenza, ma che oggi alza la voce per rivendicare il proprio riscatto, anche attraverso i graffiti sui muri dei suoi edifici fatiscenti.

Molti hanno raccontato la Scampia che tutti conosciamo, enfatizzando la sua storia cruenta, creando nuovi “eroi” negativi da emulare e nuove tendenze, portando avanti una narrazione della violenza e del crimine che, però, ahimè, non redime.  

Tra i tanti narratori che rimpastano fatti di cronaca, Davide Cerullo emerge con una voce autentica, scavando con le proprie mani nel ventre di Scampia per riportare alla luce non solo la sua realtà tangibile, ma anche le radici storiche che l’hanno resa uno dei luoghi più pericolosi del sud Italia. 

Davide, uomo che riuscito a scampare al fascino maledetto della Camorra, si racconta ne L’orrore e la bellezza. Storia di una storia (AnimaMundi Edizioni, 2021). E lo fa come non lo ha mai fatto prima. Raccoglie i suoi appunti sparsi di vita, di una vita al margine, cocciuta, impastata d’illegalità e miseria, e li mette insieme, cercando di dare un senso al caos del passato. Raccoglie brandelli, intesse ricordi e frasi, compone e scompone la sua famiglia, e ne fa racconto organico. E come lui stesso afferma, sicuramente non basterà a raccogliere un’intera vita. 

La sua è una storia di mancanze, di vuoti che cercano di essere colmati nella desolazione di una periferia che offre poco più dell’illusione di una vita migliore. Se ci fosse stata bellezza non ci sarebbe stato inganno. Mancavano gli affetti, la motivazione allo studio, le strutture, i servizi. Mancava soprattutto l’amore. Ed è in carcere che Davide scopre la Poesia. Scopre la salvezza delle parole e il loro incanto. Rinasce tra i libri e diventa avido di letture. Prende coscienza del fatto che altri mondi sono possibili e che dall’orrore si può fuggire. 

In quest’ultimo lavoro Davide Cerullo, cresciuto nelle viscere di un territorio ostile, racconta con grazia e “poesia cruda” la storia di Scampia che fa da sfondo a vicende personali e famigliari. Il luogo si intreccia alla vita e la vita si intreccia al luogo, in una stretta asfissiante dalla quale è difficile uscire. Davide ci restituisce così un miracolo e una speranza. 

Il poeta francese Christian Bobin afferma che “noi nasciamo più dagli incontri che facciamo che dai libri che leggiamo”. Non posso che dargli ragione. Io avevo bisogno di incontrare le persone giuste, quelle che ti riportano semplicemente a te, quelle che riaccendono in te la possibilità di un ancora, di un altrove, di essere accolti in un muto gesto di perdono.

Oltre il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese: “Onibaba” di Rossella Marangoni, tra mito, mistero e storia

È difficile trovare in Italia libri sul lato più oscuro del Giappone. È più facile commercializzare prodotti che risaltino l’inconfondibile estetica nipponica,  siano essi oggetti, libri, costumi. C’è chi, fortunatamente, non si arrende e ci prospetta punti di vista che aprono scenari diversi. Anche in questo caso possiamo parlare di diritto all’informazione. È giusto che del Giappone ci arrivi soltanto la sua facciata più curata ed attraente?

Rossella Marangoni, studiosa del Paese del Sol Levante da numerosi anni, si lancia nella mirabolante impresa di voler tracciare con Onibaba (Mimesis Edizioni, 2023) le origini del mostruoso femminile nell’immaginario giapponese, contestualizzandolo nelle varie epoche. Un lavoro che richiede conoscenze in ogni campo: nella lingua, nella  storia, nella letteratura, nella società, nella religione e nella mitologia giapponese. L’esplorazione di tutti questi campi – che si evince anche dalla corposa bibliografia – rende lo studio solido e affidabile.

Già nell’accurata prefazione sono tante le domande che l’autrice si pone: Cosa spaventa nella donna, cosa minaccia? Perché è così massiccia la presenza di mostri femminili nel folclore giapponese? Sono forse l’incarnazione di paure malcelate, di arcaici timori di cui non ci si è mai liberati? (p. 10). Per dare una risposta a tutti questi interrogativi, bisognerà andare alle origini del mondo antico giapponese, quando il Giappone ancora non esisteva, del quale sappiamo poco, perché mancava la scrittura e quando la scrittura è arrivata, probabilmente, era già troppo tardi per evitare contaminazioni infauste con la vicina Cina. Ne è la dimostrazione lo stesso Kojiki (712 d. C.), uno dei libri più antichi sulla mitologia nipponica, nel quale Izanami, divinità femminile, passa dal dare la vita al dare la morte, peraltro con ferocia: Nel Giappone antico la donna è regina sciamano, la donna è imperatrice, la donna ha un ruolo fondamentale nella ritualità legata al culto dei kami, la donna gestisce il potere politico, militare e religioso. Poi tutto sembra precipitare, come una palla che, lasciata andare lungo un pendio, acquisendo velocità, si abbatte rovinosamente sul cammino delle donne: è la fine (p. 17).

Probabilmente questa lenta discesa della figura femminile agli inferi è da ricondurre proprio alla filosofia del sacro che arriva in Giappone con il confucianesimo e il buddismo. Successivamente anche lo shintoismo farà la sua parte. A partire, quindi, dall’VIII secolo, i numerosi scambi con la Cina rendono il Giappone un paese sempre meno aperto nei confronti della donna e dei suoi diritti. Fioccano così, nel corso del tempo, mostri femminili di ogni tipo: Kijo (orchesse), Kuchisake Onda (donna dalla bocca tagliata), Nukekubi (mostro femminile dal collo staccabile), Yukionna (donna di neve), Shitanagabaasan (essere mostruoso in forma di vecchia cannibale dalla lingua lunghissima).

Nei sette capitoli successivi all’introduzione, Rossella Marangoni traccia l’intero immaginario femminile che attraversa il Giappone nei secoli, dal cui studio emerge una desacralizzazione della figura femminile a favore di una confortevole mostruosità che ha posto le basi per una solida società patriarcale nipponica di stampo filocinese. Una società che, ahimè, continua, seppur con delle migliorie, fino ai giorni nostri.

La ricerca dell’autrice si rivela di notevole importanza, dal momento che mancava nel panorama nazionale italiano uno studio di tale portata. Ci fa comprendere, anche, che la mitologia, così come la percepiamo oggi, non è mero racconto fantastico. Anzi, le contraddizioni del Giappone vanno cercate proprio lì, in quell’immaginario fantastico che nasconde un pericoloso mondo reale in cui tutto della donna è mostruoso: dalla fecondità al desiderio, dal concepimento alla gravidanza. La verità è che dietro donne-serpente e donne di neve, si nasconde la paura dell’uomo di perdere la propria egemonia sulla società, sempre più soffocata da univoche visioni maschili. 

Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese è dunque un lavoro che scardina alcuni cliché sul Giappone e ci restituisce uno di quei volti che tutt’oggi si tende a non mostrare. Nonostante i progressi, l’apertura all’Occidente e alle nuove visioni della democrazia, il Paese del Sol Levante continua a proteggere le proprie profondità, le quali saranno, probabilmente, sempre inaccessibili. Ed è forse questa la nostra vera attrazione e il suo intramontabile fascino. 

“Sono io Elisa Claps” di Mariagrazia Zaccagnino: dal “caso” ai diari di una vita recisa

È il 12 settembre del 1993 quando, nella tranquilla città di Potenza, una ragazza non fa ritorno a casa. Nulla di strano se non fosse che quella ragazza, Elisa Claps, mai avrebbe deciso di non tornare a casa. Motivi non ce n’erano. La famiglia, soprattutto il padre, non aveva dubbi: non sarebbe mai più tornata.

Ci sono legami famigliari che si instaurano sulla fiducia assoluta. A volte basta uno sguardo, un silenzio, per comprendere l’altro. L’assenza di Elisa è stata anomala fin da subito. Come convincere le autorità dell’epoca che un legame ancestrale batte ogni legge precostituita? Che non si possono attendere quarantotto ore per denunciarne la scomparsa? 

La famiglia non può fare nulla. La burocrazia è spietata. I legami sono fili invisibili e tali restano, anche di fronte a terribili presagi. E non c’è peggior cieco di chi sceglie di non vedere.

Tutta la tragedia di Elisa si svolge sull’assenza, sul non-visto e sull’occultamento. Tragedia che si svolge  proprio in quel tempio sacro, la Chiesa della Trinità, che tante volta ha invitato i fedeli a “vedere col cuore”. Sembra quasi che ci voglia fortuna anche con i presentimenti. 

Henriette Browne, Una ragazza che scrive, 1870

Poche settimane fa scopro casualmente che una casa editrice – la Edigrafema di Matera – pubblica i diari di Elisa Claps. L’edizione è curata in modo professionale dalla giornalista Mariagrazia Zaccagnino. Ordino il libro ma ho timore nell’aprirlo. Mi chiedo se sia giusto leggere i pensieri segreti di una ragazza, andata via troppo presto. Entrare nelle parole dell’altro è come entrare nella sua intimità più profonda.

Passano alcuni giorni ed è il desiderio di conoscere Elisa a spingermi ad aprire le prime pagine e a leggere. Le memorie impresse nel diario si mescolano ai ricordi di mamma Filomena, abilmente intessuti dalla giornalista ai fatti di cronaca. Tutto inizia a scorrere, anche se dolorosamente.

Ripercorro così i desideri della giovane Elisa, le sue aspirazioni che avevano valore di assoluto – diventare medico -, i suoi timori verso la contemporaneità spietata che vedeva magistrati uccisi dalla mafia. Erano gli anni delle morti di Falcone e Borsellino. Elisa voleva portare i ricordi di queste figure eccezionali per sempre dentro di sé. 

Una ragazza, quindi, caratterizzata da un forte senso di giustizia e di responsabilità verso l’altro. Amava la sua vita, la sua famiglia e le sue amiche. Era molto spirituale e viveva nella devozione spontanea e profonda. 

Il senso di timore che avevo inizialmente va via. Conoscere Elisa, attraverso il suo diario, è forse doveroso. Le vittime, purtroppo, perdono il diritto alla parola con la loro morte. Con queste pagine, Elisa si riprende il diritto di parlare. Non accade spesso che qualcuno ritorni dal regno dei morti per materializzarsi accanto a noi, con un sorriso. Con una voce, che si fa eco nei giorni a venire.

Telemaco Signorini, Bambina che scrive

Sono io Elisa Claps è, dunque, un lavoro che tesse i fili del tempo perduto, tra memorie, testimonianze e dati di cronaca. La curatrice lo fa in punta di penna, rispettando il dolore e il candore di una vita recisa.

L’ultimo pensiero va alla porta chiusa che avrebbe dato accesso al sottotetto della chiesa. Va a chi avrebbe voluto varcarla, rispettando con singolare educazione il tirannico no di chi all’epoca aveva la responsabilità di poterla aprire. Mi viene così in mente Antigone la disperata che cerca di dare degna sepoltura al fratello, la quale, nel serrato dibattito con Creonte, a un certo punto dice: “Ma il tiranno tra i molti vantaggi ha anche quello di poter fare e dire ciò che vuole.”

Il 23 gennaio, alle ore 17, presenteremo il libro Sono io Elisa Claps presso il Teatro Duse di Bari. Il ricavato delle vendite sarà destinato al progetto Il cuore di Elisa nel cuore dell’Africa per l’allestimento di un ambulatorio medico nella Repubblica Democratica del Congo.

“Perfect days”di Wim Wenders: la sublimazione della banalità delle piccole cose

Sarà un pomeriggio di pioggia. Quella poggia sottile, che accompagna le domeniche malinconiche prima della fine delle vacanze natalizie.

In bocca ancora il sapore del sushi all’avocado e del moji al tè verde. Sapori che accompagneranno la visione del film Perfect days di Wim Wenders, che ritorna al cinema dopo anni di silenzio creativo.

La pellicola, che si apre in 4:3, mi fa subito pensare ai film di Ozu e alla sua indimenticabile delicatezza. E penso, mentre la pellicola scorre, che i film di Ozu non si dimenticano mai.

Sarà così anche per Perfect days?

Più numerose le primavere,
più i lunghi dì
recano lacrime e lamenti —
Kobayashi Issa

Siamo a Tokyō ed entriamo subito nella vita quotidiana di Hirayama. L’uomo svolge quotidianamente le sue azioni: si alza al rumore di una scopa che spazza foglie per strada, si lava i denti, indossa la divisa, scende in strada, prende una lattina dal distributore, si mette in macchina, ascolta cassette di musica occidentale – Lou Reed, The Smith, Van Morrison – e fa il giro dei bagni pubblici per pulirli. Adora il suo lavoro e lo fa con cura perché sa di offrire un importante servizio per la collettività. 

Oltre al lavoro, Hirayama legge Faulkner e letteratura giapponese, coltiva piantine di momiji – foglie d’acero – e scatta fotografie con un’analogica. La sua vita fluisce semplice, in una Tokyō caotica seppur inafferrabile, la cui tridimensionalità di palazzi e strade si intreccia con un groviglio di urbanità decadente. 

Così, osserviamo ripetutamente il quotidiano di Hirayama, ipnotizzati dalla grazia con cui l’attore – Kojî Yakusho – si dedica al suo personaggio. Movimenti pacati, sorrisi, bellezza delle piccole cose. 

E così il film prosegue, per più di due ore. 

Tal quale una parola,
mangia un chicco d’uva,
un altro,
e un altro ancora
Nakamura Kusatao

La vita di Hirayama si fa narrazione semplice e immediata. Wenders non cerca colpi di scena, l’azione è Hirayama stesso che con la sua vita semplice e rispettosa si sublima a poesia. Il regista si dedica alla ricerca di quella “complessa semplicità orientale” che tanto spaventa e confonde noi occidentali. 

Hirayama è come le parole di un haiku: mostra e dice un universo in poche sillabe. Il suo volto ci accompagna per tutto il film ed è come se l’uomo ci prendesse per mano e ci dicesse: guarda, questa è la mia invisibile ma utile vita. Esaltare la trasparenza dell’esistenza, tramite l’armonia e la purificazione da un mondo che non ci appartiene.

Con la sua divisa blu, il tenugui al collo per asciugare il sudore e quei baffetti sempre curati, Hirayama sembra provenire da un mondo per noi, frenetici donne e uomini di oggi, lontano e sconosciuto. 

Non dovremmo, forse, salvarci in una stanza di pochi tatami e continuare a leggere fino a che il caos non si tramuti in silenzio?


La campana del tempio tace,
ma il suono continua
ad uscire dai fiori.

Matsuo Bashō

“Vuoto” di Ilaria Palomba: un libro dell’altrove

Di fronte a questa normalità disumana, la follia è una via di fuga, un tentativo estremo di urlare: Il vostro mondo non mi sta bene, non lo accetto, lo rifiuto, non voglio viverci! Ma se urlerete una volta, sarete condannati a tacere per sempre, altrimenti c’è la contenzione, lì, pronta, ad aspettarci a braccia aperte. Soffri? Soffri abbastanza?

Il bello di quando iniziamo a leggere un libro è l’incognita del viaggio che ci aspetta. Spesso il titolo può essere una guida o anche un nemico, come nel caso di Vuoto di Ilaria Palomba. Titolo secco, dalle prospettive senza troppe interpretazioni, che conduce il lettore verso un percorso di amore/odio.

Iris, la giovane donna, è protagonista di un romanzo di deformazione che tocca vertigini e abissi. Senza apparenti coordinate di scrittura, l’autrice tesse le trame invisibili dell’inconscio di tutti i personaggi. Abile chirurga, viviseziona anime e corpi. Nulla sfugge alla sua psiche presente nel mondo reale, ma anche attenta a quell’altrove di cui si fa abile scrutatrice. Sì, Vuoto è un libro dell’altrove e dell’inapparente.

Nel racconto di Vuoto, tutto quello che vediamo ha un doppio. Un doppio che a sua volta diventa specchio, prisma, mosaico, fino a diventare una nebulosa impercettibile all’occhio umano. Tutta la potenza negativa e positiva della mente è qui, tra queste pagine che risucchiano il lettore in un monologo a tratti devastante, a tratti vertiginoso. In certi momenti, tutto si fa buio. Il lettore non ha coordinate e si deve necessariamente abbandonare all’ebrezza di un potente flusso di coscienza.

Come si arriva a sopportare il vuoto? Soprattutto, cos’è questo vuoto in cui quasi tutti i personaggi si inabissano, placidamente? Potrebbe avere le sembianze di una melma quotidiana o di un ideale inarrivabile. Potrebbe essere la nausea di corpi che si trascinano nella vita o la complessità contemporanea di un sistema sociale asfittico e violento. Potrebbe essere il nulla che appartiene all’uomo dalla sua nascita? Potrebbe essere il vuoto di Ilaria Palomba condizione per esistere, resistere e distruggersi per poi rinascere? Il Vuoto come ciclo intermittente, che ci accompagna nel mistero della vita?

La sofferenza, la malattia mentale, la depressione, il suicidio, l’inaccettabilità, i traumi infantili, gli stupri, la psicosi, gli psicofarmaci: tutti tabù della nostra società che Ilaria Palomba scopre, senza fare sconti. Fatti reali? Invenzione letteraria? Cosa importa. Qui è la scrittura a parlare e a farsi corpo offerto all’indifferenza.

Con la depressione la nostra civiltà ci ha fatto i soldi, se sei felice diventi pericoloso. Ci vorrebbero tutti depressi e incatenati, possibilmente suicidi, per poi amarci da morti. Facile così. Delirare il mondo, non partire e non concludere, eludere la depressione – la riflessione su di sé che conduce al senso – farsi eco, non suicidio.

In questa “apologia della rivolta” all’interno di una società umiliante e soffocante, Iris trova il modo di riavvolgersi. Così gli inverni non sono eterni inverni e i deliri possono rifiorire, anche se appassiti.

Ilaria Palomba, Vuoto, Les Flâneurs Edizioni, 2022.

Dal Pasolini professore agli Atti impuri: la voce corsara che manca

È il 2 novembre del 1975 quando il corpo di Pier Paolo Pasolini viene trovato sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia. Un corpo martoriato, fatto a pezzi, la cui violenza d’immagine contrasta con gli anni della Bellezza che Pasolini ha provato a creare, in un’Italia già piena di contraddizioni e storture.

La poesia, la lingua friulana, il bianco e nero dei suoi film, la ricerca estetica, il candore della sua voce, il tutto frullato nel vortice di quella morte improvvisa e immorale.

Mi avvicino inizialmente a Pasolini grazie alla sua attività di insegnante di scuola media, colpita da alcune citazioni riportate nel libro Improvviso il Novecento di Giordano Meacci, in cui l’autore traccia, tra luoghi e interviste a ex alunni del poeta, l’attività, seppur breve, di insegnamento presso la scuola Francesco Petrarca di Ciampino. Siamo già in quella periferia romana, protagonista costante della vita privata e artistica dello scrittore.

[…] perché lui non li assillava né considerava il voto importante. Considerava quello che sapevano, non quello che non sapevano. Non andava alla ricerca di quello che non sapevano. Andava alla ricerca di quello che potevano esprimere, e gli alunni con lui erano liberi. Si sentivano molto valorizzati…

È d’obbligo, dopo aver attraversato questi tre anni da insegnante di borgata, immergersi nel vivo della sua scrittura e dei suoi film. In Ragazzi di vita, la mia lettura si fa quasi ossessiva. Non riesco a lasciare quelle pagine fitte, che scorrono come una macchina da presa, tra luoghi decadenti, parlate romane e personaggi che non fanno nulla, immersi completamente nell’ozio della vita di strada. Vengo avvolta da descrizioni minuziose, che mi regalano visioni di mondi lontani a me sconosciuti. In questa lettura sinestetica, scopro un Pasolini attento a un’estetica stilistica ben bilanciata tra complessità descrittiva e lingua di vita, fedele a una realtà che va necessariamente raccontata, senza intoppi morali o sentimentali, esclusivamente definita e modellata da uno stile lucido e razionale. Quelle scene, poi, le rivedo in Accattone, e quei volti li trovo riassunti in quello di Franco Citti, che interpreta il protagonista, perfetto come funambolo tra grazia mancata e volgarità ricercata.

[…] e il Riccetto fece come lui, ma siccome gli schifava raspare con le mani, andò a strappare un ramo da un fico oltre un reticolato che pareva lì dai tempi di Crispi e con quello stando accucciato cominciò a spostare le carte zozze, i cocci, le scatole di medicinali, gli avanzi delle minestre e tutta l’altra roba che gli puzzava intorno.

Il bello di Pasolini è il vortice della sua arte, che non si arresta alla solita estenuante ricerca. Così, in Teorema, film del 1968, trovo atmosfere diverse, in contrapposizione a tutto ciò che di Pasolini conoscevo. Nel film, Pasolini espone il suo “teorema” concettuale e politico: la distruzione del sé piccolo borghese, in una Milano umida e ovattata. Forse il più realistico dei suoi film, i cui appunti vengono abbozzati come “referti” e “dati”, come apprendiamo dal libro, pubblicato successivamente al film. Di questa pellicola, colpiscono la bellezza e la violenza sottesa, in cui azioni e parole sono sospese su una borghese delicatezza, pronta a infrangersi dinanzi al peccato proibito e inaccessibile. L’ambiguo ospite che arriva in questa casa perfetta distrugge tutto – ogni ideale, ogni certezza, ogni salda convinzione – come un giovane Rimbaud che entra in casa Verlaine a sconvolgere per sempre il matrimonio tra Paul e Mathilde. Non a caso, l’ospite è un assiduo lettore di Rimbaud. Parafrasi della vita e di quel mondo che Pasolini tende a scardinare, senza riuscirci. Forse è troppo presto per il poeta che si fa veggente e assolutamente moderno, sempre per riprendere il lontano Rimbaud.

Il piacere di essersi fatta violare da quello sguardo, di essersi volontariamente perduta e degradata, coincide con una vergogna che può essere casuale e legittima: quella di essere stata colta di sorpresa, mentre innocente faceva il suo bagno di sole in terrazza. Ella recita questa parte, diligente e accanita come una bambina: ma la recita, coscientemente, male.

Il Pasolini puro, quello con la lingua di fuoco, che sventra anni di sbagliata politica e di storia, lo ritrovo negli Scritti corsari. Anche qui la mia lettura si fa morbosa e, a un certo punto, persino malinconica. Pagine e pagine di articoli si susseguono, dalle quali emerge una verità inascoltata. Ed è allora, nella giungla pericolosa di quelle parole, che mi accorgo quanto quella voce, oggi, manchi. A noi, nuova società del consumo e del progresso, gentrificata, amalgamata, appiattita dalla globalizzazione colonizzante. Come ci vedrebbe oggi Pasolini? Cosa direbbe di noi che siamo la realizzazione del suo più triste incubo?

Sono passati quarantasette anni dalla pubblicazione di quegli scritti, nel maggio del 1975. A ogni pagina, quella voce che manca si fa nostalgia di una storia del presente asettica, che continua da sola, inesorabile, senza che qualcuno faccia da contraltare. Una storia che scivola, subdola, come quel Petrolio che va via, lasciando tracce indelebili.

L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo.

Dopo tanto frastuono – i processi, la morte violenta, gli scritti incriminati, i complotti – qual è il Pasolini che mi piacerebbe ricordare? Sicuramente quello di Atti impuri. In questi scritti incompleti, ritrovo la voce poetica del Pasolini adolescente, che cerca di esplorare la sua sessualità omosessuale, vista, appunto, come un atto impuro e come una forma di peccato. Sembra di avvertire, tra quelle pagine, il continuo rimpianto di non poter amare nella normalità degli amori diversi. Il dolore cresce, si fa colpa e miseria, impoverito ulteriormente dai frastuoni della Seconda Guerra Mondiale. L’amore si trasforma in ossessione proibita e in fantasia deviante e deviata. La frustrazione che ne deriva è un vero e proprio atto di dolore, recitato in ginocchio, su taglienti rovi di spine.

Nisiuti era perfetto, davanti a me, col suo odore di fieno e di latte, la sua carnagione rosata e intensa, ormai un po’ annerita dai primi soli primaverili, le sue pupille nitide e pure. Tutto era contenuto in lui, tutto quello che è necessario all’amore. E niente di chiuso, di inespresso, di adombrato: il suo mistero splendeva chiaro come il suo sguardo.

No. Non ho letto La Nausée di Sartre in una stanza tutta per me

In una stanza d’albergo di Lecce

Era un pomeriggio strano quando avevo tra le mani l’antologia letteraria francese del ‘900. Ogni tanto mi capita di sfogliarla per non perdere il gusto della letteratura nel tempo. Rileggo così, un po’ per caso, un estratto de La Nausée di Sartre e di quando Antoine Roquentin si trova davanti alle radici di castagno. Ho sentito immediatamente quelle parole attraversarmi come una verità a me ancora sconosciuta, martellandomi per giorni e giorni. Ho dovuto ammettere a me stessa di non aver mai letto quel libro, anche perché i libri non si devono leggere per forza. Arrivano così, all’improvviso ti chiamano, per una ragione. Com’è successo a me.

Compro il libro ma mi scontro subito con la realtà: non potevo leggerlo nell’amore e nel silenzio di “una stanza tutta per me”. Ero continuamente in giro per impegni scolastici. E così è iniziato questo mio viaggio nel quotidiano, in compagnia de La Nausée di Sartre.

[…] je vais au hasard, vide et calme, sous ce ciel inutilisé.

I giorni passano e sento che in questo libro, una banale edizione di Poche, l’unico ordine possibile sembra essere quello cosmico, in cui ogni essere respira, vive e muore. Esattamente come stavo facendo io – respiravo e vivevo. Lo sguardo di Sartre sul mondo è uno sguardo lento e dolce, che segue il tempo dei gesti, delle azioni e delle parole. Lo stesso sguardo di cui avevo bisogno io per perdermi, lontana dal vizio di quella quotidianità dolce e spietata.

[…] les choses sont tout entières ce qu’elles paraissent – et derrière elles… il n’y a rien.

La Nausée va letto nei ritagli di vita quotidiana, nei luoghi meno indicati per la lettura: su un treno chiassoso, in un bar con la tv accesa, nella pausa pranzo tra colleghi rumorosi, al mare in piena estate, in un’estranea camera d’albergo. Molti si aspetterebbero di leggerlo nel silenzio di una stanza confortevole, ma cosa ci racconterebbe? Questo libro va letto, ripeto, mentre semplicemente si esiste, mentre un’ape in un parco interrompe lo scorrere della prosa, mentre una cameriera al bar ci chiede se desideriamo altro. Perché questo libro è così. Deve insinuarsi in noi, nella nostra esistenza fatta di fratture, intermittente e malridotta. Ho provato, così, a farmi accompagnare da La Nausée in alcuni momenti della mia vita. E quando distoglievo gli occhi dalle pagine, il mio sguardo sul mondo si faceva diverso. Io stavo diventando diversa. La Nausée montava anche in me, come un fatto organico normale.

J’existe. C’est doux, si doux, si lent. Et léger.

Un libro lo iniziamo perché ne abbiamo bisogno. È lui a cercarci, in qualche modo. Ci incontra, entra in noi e, spudoratamente, ci cambia. Eppure, c’è qualcosa in questo libro che ancora mi sfugge. Il momento in cui la nausée sale e perché. Momento sempre inatteso e misterioso.

En ce moment même – c’est affreux – si j’existe, c’est parce que j’ai horreur d’exister.

Questa è la storia della lettura di un libro. Perché un libro non si legge soltanto. Mentre lo leggiamo, il libro vive, viaggia, lavora, pensa, si riposa. Questa è la storia di un libro che non ha preso pace, perché non ha avuto il conforto del silenzio di una stanza caldamente illuminata. L’ho letto in una fase impegnativa della mia vita e ha vissuto con me gli alti e i bassi del quotidiano. E così, a fine lettura, il libro ha l’odore dei momenti vissuti e s’intravede quel giallo che col tempo si intensifica. Il giallo dello sporco dei giorni e della sua misteriosa e incombente nausea esistenziale.

Je ne possède que mon corps ; un homme tout seul, avec son seul corps, ne peut pas arrêter les souvenirs ; ils lui passent au travers. Je ne devrais pas me plaindre : je n’ai voulu qu’être libre.

I sogni recuperati di Nina. Il nuovo lavoro di Adelia Battista per la Libreria Dante & Descartes di Napoli

Le edizioni della Libreria Dante & Descartes di Napoli tornano a pubblicare una nuova opera letteraria a cura di Adelia Battista, dal titolo Nina. Vico Storto Concordia, 10.

Il testo si pone l’intento di recuperare la memoria storica e sociale che soggiace, abbandonata, nei nostri archivi. Infatti, quasi mai accade che qualcuno la restituisca al pubblico per farla rivivere.

Nina nasce proprio da questi sotterranei bui e impolverati. Un funzionario scopre che nei sotterranei del Reale Albergo dei Poveri giacciono centinaia di fascicoli sotto le macerie del terremoto del 23 novembre del 1980. È l’archivio del Tribunale di Napoli: I fascicoli racchiudevano i destini di tante creature e costituivano la testimonianza chiave delle loro esistenze. Nelle relazioni di magistrati, poliziotti, psicologi e assistenti sociali, affioravano, scritte a mano, storie di povertà e tristezze familiari, ma anche di solidarietà e di speranza.

Le archiviste, Rossana e Raffaella, si battono affinché questi documenti e queste storie, rimaste nascoste per anni, vengano finalmente fatte conoscere. Ed è qui che subentra Adelia Battista, riportando in vita, su carta, la storia di Nina, un’orfana napoletana dalla vita travagliata.

Siamo nei popolari vicoli napoletani, dove odori, brusii, esistenze, si mescolano e si sorreggono. Rosa, la nonna di Nina, riesce ad avere in affidamento le due nipoti. La donna è il simbolo del sacrificio e della dedizione famigliare, ma anche della lotta e del coraggio. Fa la lavandaia e il suo lavoro stabile le permette di avere sulle spalle il peso dell’intera famiglia. Rosa è anche l’incarnazione della semplicità e di una estrema carità.

I genitori di Nina, Carmela e Nicola, rappresentano l’amore sbagliato, tradito, violentato. La morte della madre Carmela segna la perdita e accentua, in Nina, il senso incolmabile della mancanza materna e della solitudine: Da quando Carmela non c’era più Nina aveva cantato poche volte. «Per cantare ci vuole il cuore contento», diceva e lei contento il cuore non l’aveva.

Nicola Bottone è un uomo di malaffare. Questo germe velenoso, di zoliana memoria, sembrerebbe condizionare anche le vite delle future figlie: «Nonna, ma i sogni da dove vengono?», chiese Nina un giorno con un tono nervoso nella voce. «Da ‘o cielo! Da dove se no?», rispose Rosa. La ragazza la guardò sbigottita. “E perché il cielo mi manda un sogno accussì brutto?”, meditò. Per fortuna così non è stato. Il presentimento, che nasconde la “vergognosa” paura della non amata, dell’orfana, viene cancellato dall’amore di Rosa, interrompendo il circolo vizioso del male ereditato.

Ciò che colpisce di questa storia recuperata è sicuramente la giustizia terrena, che sembra fare sempre il suo corso. L’affidamento inaspettato delle nipoti di Rosa e il carcere per le malefatte di Nicola Bottone fanno sperare in una società migliore.

La storia di Nina, recuperata dalla memoria degli archivi del Tribunale di Napoli, emerge con forza e delicatezza. La scrittura sussurrata di Adelia Battista fa entrare il lettore in una dimensione quasi onirica, seppur la trama sia impregnata di realismo napoletano.

Durante la lettura, iniziata e terminata in treno, durante il solito viaggio mattutino per recarmi a scuola, mi ha fatto rivivere le atmosfere di Napoli, con le sue infinite contraddizioni. Un libro sinestetico, delicato e “misericordioso”.

Adelia Battista, Nina. Vico Storto Concordia, 10, Libreria Dante & Descartes, 2021.

Le foto sono immagini di repertorio relative al Terremoto dell”80 che ha colpito duramente la Campania.

Isabelle Huppert: ritratto di una voce a partire dal suo corpo letterario

Alcuni testi nascono per raccontare, testimoniare, ricordare, elogiare. Huppert et moi di Richard Millet potrebbe sembrare, in apparenza, un elogio a un’icona del cinema francese. In realtà, Millet scrive una lunga meditazione su Isabelle Huppert a partire da una coincidenza: entrambi sono nati nel marzo del 1953, con tredici giorni di differenza: […] ces treize jours d’aînesse suggèrent qu’Huppert m’a non seulement précédé dans le temps mais qu’elle a toujours été là, et que, d’une certaine façon, je l’ai toujours connue (p.23). Una meditazione che non si limita alla sola figura dell’attrice, ma a tutto il cinema, a partire dalla voce che è corpo vibrante della recitazione: […] la voix en tant qu’elle est l’épiphanie du corps de l’acteur, lequel n’a d’autre fonction que de rendre visible sa voix en lui donnant corps […] (p.10).

Ed è proprio sulla voce che l’autore insiste, voce che diventa metafora di un mondo alla deriva, insignificante e apolitico. Millet riprende sicuramente i temi a lui cari, che lo hanno reso scrittore in azione nella sua campagna contro la fine della civiltà europea e di quella francese in particolare, dove, ritornando al cinema, tutti gli attori potrebbero essere sostituibili, tranne Isabelle Huppert, che diventa come un’isola solitaria in un paesaggio artistico desolato.

“Corpo femminile”, “corpo letterario”, “corpo politico”: con le sue caratteristiche “neutre e discrete”, simili a quelle della ragazza della porta accanto, Huppert sfida ogni stereotipo e attraversa gran parte della storia letteraria europea, incarnando personaggi come Madame Bovary, Charlotte de Le affinità elettive, Madame de Maintenon, Anne Brontë: Le corps d’Huppert: on le devinait ou l’imaginait menu. Il paraît aussi lisse et clos que son visage; il ne dit rien. Silencieux, ni beau ni laid, il peut être voué à tous les rôles ou aux gémonies (p. 33).

Dopo una breve analisi di alcuni film che la rendono protagonista, da Violette Nozière a La pianiste, l’autore infrange quello specchio in cui egli stesso si riflette, entrando in una dimensione senza tempo. Parlare di Huppert è solo un pretesto per parlare di se stesso e delle passioni che lo hanno attraverso nella visione dei film. Isabelle Huppert, dunque, figura femminile ideologizzata, frammento di silenzio e di meditazione nella vita dello scrittore, rappresentazione rischiosa di corpi letterari, rimanda allo scrittore anche la sua dimensione terreno, che lo avvicina alla morte, pericolosamente: Peut-être est-elle la figure de ma mort – mon visage mortel: tout ce qui me rappelle que je suis dans le temps est une figure de ma mort – les femmes, surtout, qui donnent la vie et la mort, contrairement aux hommes, qui ne donnent rien (p. 80).

Richard Millet, Huppert et moi, Pierre-Guillaume de Roux, 2019.

Yukio Mishima: tra eleganza e brutalità in difesa della cultura

È l’8 luglio del 1853 quando le ‘Navi nere’ (kuro fune, ribattezzate così dai giapponesi per sottolinearne la minaccia e la pericolosità) del commodoro Matthew Perry si ancorano alla baia di Uraga, Tokyo. L’intento degli americani è quello di infrangere il sakoku, un editto che proibiva agli stranieri l’ingresso e limitava gli scambi commerciali alla Cina e ai Paesi Bassi. L’anno successivo, nel 1854, Perry vi ritorna con il doppio delle navi. Lo shōgun Tokugawa Iesada accoglie tutte le richieste degli americani, aprendo così le proprie frontiere e segnando l’apertura del Giappone all’Occidente.

L’episodio rappresenta un ricordo indelebile nella storia dei giapponesi e uno spaccato storico non indifferente, che apre il grande dibattito tra modernizzazione e occidentalizzazione del Paese: quali sono stati gli effetti di questa apertura? A cosa è andato incontro il Giappone? Cosa voleva dire essere e sentirsi giapponesi?

A queste domande, Yukio Mishima risponde con la raccolta di saggi La difesa della cultura, pubblicato nel 2020, per la prima volta in Italia, da Idrovolante Edizioni, e tradotto da Silvio Vita e Romano Vulpitta.

Perché questi scritti sono così importanti? Grazie ad essi, conosciamo più a fondo l’uomo Mishima, il Mishima politico, l’uomo che si divideva tra la via della penna e la via della spada, scegliendo quest’ultima, attraverso una rappresentazione estrema della sua morte, avvenuta il 25 novembre 1970, tramite il seppuku che molti, all’epoca, giudicarono di aver portato indietro il Giappone di duecento anni.  Infatti, il modo con cui Mishima morì e l’occupazione dell’ufficio del generale Mashita dell’esercito di autodifesa, con i membri più fidati del Tate no Kai la lui fondato, provocò disonore alla comunità giapponese e per anni l’argomento venne considerato un tabù. Ci volle del tempo per riflettere e dare una spiegazione a quanto successo.

La difesa della cultura rappresenta una raccolta fondamentale per capire cosa motivò Mishima a spingersi così oltre, oltre la tradizione stessa. Si è parlato di fanatismo, di estremismo, di nazionalismo efferato. In realtà, Mishima viveva un vero e proprio disagio esistenziale, “qualcosa si è rotto” scrive, legato alla perdita di tradizione, intesa come insieme di valori e di simboli di unità del popolo, e ricerca di un ideale e di sacralità: Le passioni sono inaridite […] Che tempi siano piuttosto quelli in cui viviamo dovrebbe essere un assoluto enigma, ma ciò nonostante traspare, potremmo dire, con una nitidezza che non lascia adito a dubbi. Perché sia avvenuto questo declino io me lo sono domandato a lungo (pp. 37-38). L’Occidente, con tutte le sue affascinanti novità, stava conquistando il Giappone. Anche Mishima ne venne stregato: vestiva in modo occidentale, prediligeva la letteratura francese, americana e inglese, era affascinato dall’Antica Grecia e si fece costruire una casa in completo stile occidentale. Quindi, Mishima era semplicemente un uomo che non aveva rinnegato il fascino delle mode in arrivo da oltremare, pur conservando dentro di sé un autentico spirito giapponese che si manifestava, in particolar modo, nei suoi scritti, nei suoi romanzi e nella pratica delle arti marziali giapponesi.

Molte pagine della raccolta sono dedicate ad ampie riflessioni sulla natura dell’Imperatore, che perde la sua origine divina, sui fatti del 26 febbraio accaduti in Giappone – che potrebbero costituire un antefatto all’occupazione dell’ufficio di Mashita da parte di Mishima -, sui fatti della Cecoslovacchia, sulle rivolte studentesche, sulla poesia e sul teatro.

L’ultimo scritto, Una promessa che non ho potuto mantenere, chiude la raccolta. Il testo, elaborato pochi mesi prima della sua morte, viene considerato il suo testamento politico e spirituale. L’ottimismo iniziale dell’uomo d’azione, impegnato a difendere la propria cultura a favore di una cultura nazionale, lascia spazio a un pessimismo senza ritorno: Riflettendo su cos’abbiano rappresentato per me gli ultimi venticinque anni della mia vita solo ora mi stupisco del loro senso di vuoto. Non posso dire di aver “vissuto” (p. 187). La passione dei primi anni giovanili, la stessa che troviamo nei romanzi della giovinezza, si appassisce. Il principio di lotta perde il suo senso primario. Mishima è stanco: Io la vita non riesco ad amarla quasi per niente. Combattere in continuazione contro i mulini a vento, può forse voler dire amare la vita? (p. 191).

A distanza di anni, e col senno di poi, avvertiamo sottopelle le parole di Mishima. Quel destino preannunciato del Giappone, svuotato delle sue bellezze più antiche a favore di superpotenza economica, riguarda tutti noi. Forse una morte trasformata in spettacolo era necessaria per lanciare un grido, anche se nel vuoto dei tempi moderni. Un grido rimasto inascoltato, frainteso, giudicato.

La difesa della cultura potrebbe apparire un testo molto tecnico, intriso di fatti politici specifici e sconosciuti agli occidentali, soprattutto quando Mishima sprofonda in riflessioni molto personali, evocando persone e simboli. Le ricche note a piè di pagina e la cura editoriale rendono sicuramente la comprensione più agile, senza ricorrere a ricerche su Google.

Mi piacerebbe finire questa riflessione su La difesa della cultura con le parole che chiudono l’ultimo romanzo di Mishima, Lo specchio degli inganni, che segna la fine della trilogia Il Mare della Fertilità, in quanto lasciano un grande silenzio e un’impareggiabile sensazione di pace, come se ogni cosa fosse compiuta: Era un giardino pacificante e sereno, senza niente di particolare. Come un rosario che scorra tra le dita, vi regnava, assordante, il canto delle cicale. Nessun rumore al di fuori di quello. Il giardino era vuoto. Era venuto, rifletteva Honda, nel luogo del nulla, ove ogni ricordo è cancellato. Il sole estivo inondava la pace del giardino (p.238).

Yukio Mishima, La difesa della cultura, trad. Silvio Vita e Romano Vulpitta, Idrovolante Edizioni, 2020.

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